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Stephen Jay Gould 

~ L'evoluzione della vita sulla Terra «


Alcuni personaggi annunciano le loro invenzioni con grande clamore, altri invece compiono grandi scoperte in tono dimesso, come fece Charles Darwin nel 1859 quando definì il nuovo meccanismo della causalità evolutiva: "Ho chiamato questo principio, grazie al quale ogni lieve variazione, se utile, viene conservata, con il termine di selezione naturale".

La teoria della selezione naturale è un enunciato dalle straordinarie implicazioni in una veste meravigliosamente semplice, che ha superato molto bene, per 135 anni, la prova di indagini e verifiche intense e inesorabili. Fondamentalmente, essa pone il meccanismo del cambiamento evolutivo al centro di una "lotta" tra organismi per il successo riproduttivo, il che conduce a un maggiore adattamento delle popolazioni ad ambienti che via via si modificano. (Lotta è spesso un'espressione metaforica e non deve essere vista come un combattimento dichiarato e condotto ad armi spianate. Le strategie per il successo riproduttivo includono una vasta gamma di attività non bellicose, come un accoppiamento più precoce e più frequente o una migliore cooperazione tra i partner nell'allevamento della prole.) Pertanto la selezione naturale è un principio di adattamento locale, e non di progresso generale.

Per quanta importanza possa avere questo principio, la selezione naturale non è la sola causa del cambiamento evolutivo (anzi, in parecchi casi, può essere messa in ombra da altre forze). E' opportuno sottolineare questo punto perché normalmente si abusa della teoria evoluzionistica equiparando la ricerca di una spiegazione biologica di un dato carattere all'ideazione di scenari, spesso altamente ipotetici per non dire fantasiosi, che ruotano attorno al valore adattativo del carattere in questione nel suo ambiente originario (per esempio, l'aggressività umana si dimostra utile per la caccia; la musica e la religione per rafforzare la coesione tribale). 

Lo stesso Darwin enfatizzò fortemente la natura multifattoriale del cambiamento evolutivo e mise in guardia dall'affidarsi in modo troppo esclusivo alla selezione naturale, ponendo la seguente affermazione in bella evidenza, alla fine dell'introduzione a L'origine delle specie: "Sono convinto che la selezione naturale sia stato il più importante, ma non l'unico, fattore di modificazione".

La selezione naturale non è di per sé sufficiente a spiegare il cambiamento evolutivo per due importanti motivi. In primo luogo vi sono molte altre cause che influiscono su di esso, particolarmente ai livelli di organizzazione biologica che sono sia al di sopra sia al di sotto di quello su cui si è tradizionalmente concentrato Darwin e che riguarda gli organismi e la loro lotta per conseguire il successo riproduttivo. Al livello più basso, che è quello della sostituzione delle singole coppie di basi del DNA, il cambiamento è spesso, di fatto, neutro e quindi casuale. Ai livelli più alti, che interessano intere specie o faune, l'equilibrio intermittente (o punteggiato) può produrre tendenze evolutive mediante una selezione di specie basata sulla velocità di comparsa e di estinzione di queste ultime, mentre le estinzioni in massa spazzano via porzioni considerevoli di comunità vegetali e animali per ragioni che non hanno relazione alcuna con le lotte adattative che le singole specie intraprendono nei periodi "normali" intercorrenti tra l'uno e l'altro di questi eventi.

In secondo luogo, e su questo si concentrerà il presente articolo, benché la teoria della selezione naturale rappresenti un quadro di riferimento importante per spiegare la storia del cambiamento evolutivo (nessun aspetto di questa storia può essere in contrasto con una buona teoria e considerazioni teoriche possono consentire di prevedere certi aspetti generali del quadro geologico in cui si inserisce la vita), i suoi principi non devono essere considerati come le cause determinanti dell'effettivo corso degli eventi evolutivi. È importante insistere su questo punto in quanto si tratta di un aspetto fondamentale, seppure in larga parte non ancora compreso, della complessità del mondo. Le catene e le reti di eventi sono così complesse, così zeppe di elementi casuali e caotici, così irripetibili nel loro includere una simile moltitudine di oggetti unici (e interagenti in modo unico), che per esse non possono valere i modelli standard della semplice previsione e duplicazione.

La storia può essere spiegata, con un rigore soddisfacente se le testimonianze sono sufficienti, dopo che si è svolta una serie di eventi, ma non può essere prevista con precisione prima. Pierre-Simon de Laplace affermò, con il fiducioso determinismo tipico della fine
del XVIII secolo, che sarebbe stato in grado di specificare tutti gli stati tuturi dell'universo se avesse potuto conoscere la posizione e il moto di tutte le sue particelle in un qualsiasi momento. La natura della complessità dell'universo rende però vano questo sogno. La storia racchiude troppo caos - ossia presenta una dipendenza estremamente sensibile dalle condizioni iniziali - il che produce esiti notevolmente divergenti a partire da minuscole e incommensurabili disparità nei punti di partenza. Inoltre la storia è largamente soggetta alla còntingenza, nel senso che i risultati attuali non sono determinati direttamente da leggi immutabili di natura, ma sono plasmati da lunghe catene di stati antecedenti imprevedibili. 

Homo sapiens non comparve sulla Terra, appena un "secondo" fa in senso geologico, perché la teoria evoluzionistica prevede questo risultato in base al principio di un progressivo aumento della complessità del sistema nervoso. La comparsa degli esseri umani fu, piuttosto, la conseguenza fortuita e contingente di migliaia di eventi collegati, uno qualsiasi dei quali avrebbe potuto svolgersi in maniera diversa, dirottando la storia su un percorso altemativo che non avrebbe condotto all'intelligenza di tipo umano. Per non citare che quattro di questi eventi, tra i molti possibili, ricorderò che: 1) Se i nostri fragili e poco appariscenti antenati non fossero stati fra i pochi sopravvissuti di quella imponente radiazione di animali pluricellulari che ebbe luogo durante il Cambriano, circa 530 milioni di anni fa, oggi sulla Terra
non esisterebbe alcun vertebrato. (Solo un appartenente al phylum dei cordati, il genere Pikaia, è stato trovato tra questi antichissimi fossili. Questo piccolo e semplice organismo acquatico, che il possesso di una notocorda, o asse di sostegno dorsale, indica come affine alla nostra stirpe, è uno dei fossili più rari della formazione degli Argilloscisti di Burgess, che racchiude la fauna meglio conservata del Cambriano.) 2) Se un piccolo e poco promettente gruppo di pesci dalle pinne lobate non avesse sviluppato in queste ultime uno scheletro osseo caratterizzato da un robusto asse centrale, capace di sostenere il peso dell'animale sulla terraferma, forse i vertebrati non sarebbero mai diventati terrestri. 3) Se una grande meteorite non avesse colpito la Terra 65 milioni di anni fa, i dinosauri sarebbero ancora predominanti e i mammiferi sarebbero rimasti animali insignificanti (la stessa situazione che era prevalsa nei precedenti 100 milioni di anni). 4) Se, da quattro a due milioni di anni fa, nelle savane africane che si andavano inaridendo, alcuni primati non avessero acquisito la postura eretta, la nostra genealogia sarebbe probabilmente terminata in un gruppo di scimmie antropomorfe che, come gli attuali scimpanzé e gorilla, sarebbe diventato ecologicamente marginale e probabilmente destinato all'estinzione, a dispetto di una notevole complessità di comportamento. 

Pertanto, per comprendere gli eventi e gli aspetti generali del corso della vita, si deve andare oltre i principi della teoria evoluzionistica per analizzare invece la documentazione paleontologica dell'andamento contingente della storia della vita sul nostro pianeta, cioè dell'unica versione che si è realizzata tra i milioni di alternative possibili. Una simile concezione della storia della vita si contrappone decisamente ai convenzionali modelli deterministici della scienza occidentale, oltre che alla radicata tradizione sociale e alla visione antropocentrica occidentale che considerano l'uomo come l'espressione più elevata della vita, destinata a sovrintendere al pianeta.

La comunità scientifica può adoperarsi per comprendere la realtà della natura (come in effetti fa), ma essa è a tal punto immersa nella società che non può non risentire di tutte quelle che sono le "certezze" predominanti, per quanto grande sia il suo impegno nel cercare l'oggettività. Lo stesso Darwin, scrivendo le ultime righe de L'origine delle specie, espresse convinzioni della società vittoriana più che affermare una conclusione obiettiva: "Poiché la selezione naturale agisce soltanto per il vantaggio di ogni essere, col mezzo delle variazioni utili, tutte le qualità del corpo e della mente tenderanno a progredire verso la perfezione". (Nell'edizione italiana del 1864, approvata da Darwin medesimo, da cui traiamo questa citazione, si parla di "elezione" e non di "selezione".)

Il corso della storia della vita include certamente molti fenomeni prevedibili in base alle leggi di natura, ma si tratta di aspetti troppo vasti e generali perché sia possibile utilizzarli per spiegare i risultati particolari dell'evoluzione: rose, funghi, esseri umani e via dicendo. Gli organismi si adattano ai principi fisici e trovano in essi i loro limiti. Per esempio, non sorprende troppo il fatto che, dati i vincoli della gravità, i vertebrati marini di maggior mole (cioè i cetacei) siano più grandi dei maggiori animali terrestri (oggi gli elefanti, in passato i dinosauri), i quali, a loro volta, sono di gran lunga più voluminosi dei più grandi vertebrati volanti che siano mai esistiti (gli pterosauri del Mesozoico, oggi estinti).

Leggi ecologiche prevedibili regolano la strutturazione delle comunità dei viventi sulla base del flusso di energia e di principi termodinamici (per esempio, il fatto che vi sia una maggiore biomassa sotto forma di preda che non di predatori). Le tendenze evolutive, una volta in atto, possono avere una prevedibilità locale (per esempio, la "corsa agli armamenti", in cui predatori e prede perfezionano armi e difese: una situazione che Geerat J. Vermeij dell'Università della California a Davis ha definito "escalation", documentando la robustezza crescente nel corso del tempo sia delle chele dei granchi sia delle conchiglie dei gasteropodi, che dei granchi costituiscono la preda). Tuttavia le leggi della natura non dicono
affatto perché esistano granchi e gasteropodi, perché gli insetti siano gli animali pluricellulari predominanti e perché le forme più complesse di vita sulla Terra siano i vertebrati e non grandi ammassi di alghe.

In contrapposizione alla maniera tradizionale di concepire la storia della vita come un processo di complessità gradualmente crescente e almeno in buona parte prevedibile, spiccano tre aspetti della documentazione paleontologica su cui ci baseremo per portare avanti le tesi esposte in questo articolo: la costanza della complessità modale nel corso della storia della vita; la concentrazione degli eventi evolutivi più importanti in brevi esplosioni, intervallate da lunghi periodi di relativa stabilità; infine, il ruolo delle circostanze esterne, e in primo luogo delle estinzioni in massa, nello scompigliare l'ordinamento dei tempi "normali". Questi tre aspetti, associati ai temi più generali del caos e della contingenza, richiedono un nuovo quadro di riferimento per concettualizzare e delineare la storia della vita. Questo articolo si concluderà dunque con alcune proposte per una rappresentazione diversa dell'evoluzione.

La principale testimonianza paleontologica sull'origine della vita sottolinea come il suo inizio sia prevedibile, ma dice ben poco sul suo andamento successivo. La Terra ha 4,6 miliardi di anni, ma le rocce più antiche risalgono a 3,9 miliardi di anni perché, in epoca precoce nel corso della storia della Terra, la superficie terrestre si fuse in conseguenza sia del bombardamento da parte di grandi quantità di frammenti residui della formazione del sistema solare, sia del calore generato dal decadimento radioattivo di isotopi a vita breve. Tuttavia queste rocce subirono un metamorfismo così intenso, per effetto di un successivo riscaldamento e aumento di pressione, da distruggere i fossili (anche se alcuni scienziati interpretano le proporzioni dei differenti isotopi del carbonio contenuti in queste rocce come indizi di produzione organica). Le rocce più antiche rimaste sufficientemente inalterate da poter conservare cellule fossili (sedimenti africani e australiani che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa) includono cellule procariote (batteri e cianofite) e stromatoliti (formazioni di acque marine poco profonde, costituite da sedimenti trattenuti e saldati da cianofite). Questo ci dice che la vita sulla Terra sorse in epoca molto antica ed ebbe una evoluzione assai rapida. 

Questo fatto sembra di per sé indicare una inevitabilità, o perlomeno una prevedibilità, dell'origine della vita a partire dai costituenti chimici presenti originariamente nell'atmosfera e negli oceani.
Non vi è dubbio che gli organismi più complessi siano comparsi in successione dopo questo inizio procariotico dapprima cellule dotate di nucleo (eucariote), circa due miliardi di anni fa, quindi animali pluricellulari, circa 600 milioni di anni fa, con una "staffetta" della massima complessità dagli invertebrati ai vertebrati marini e, infine (se vogliamo dare il posto d'onore, secondo una concezione piuttosto provinciale, all'architettura del sistema nervoso), ai rettili, ai mammiferi e agli esseri umani. Questa è la successione convenzionale, rappresentata nei vecchi libri di testo da una "età degli invertebrati" seguita da una "età dei pesci", da una "età dei rettili", da una "età dei mammiferi" e da una "età dell'uomo" (aggiungendo così il vecchio pregiudizio maschilista a tutti gli altri pregiudizi espressi da questa sequenza).

Non nego che l'aumento della complessità sia un dato reale, ma sostengo che il nostro desiderio di vedere la storia della vita come una progressione e gli esseri umani come organismi destinati al predominio ha distorto grossolanamente la nostra interpretazione, inducendoci a porre in posizione privilegiata un fenomeno di importanza relativamente secondaria, avvenuto solo come conseguenza di particolari vincoli iniziali. L'aspetto più saliente della storia biologica è la stabilità del modo di vita batterico, dalle prime testimonianze fossili fino a oggi e, quasi certamente, anche per tutto il futuro della Terra. La nostra è in realtà l'"età dei batteri", come era all'inizio e come sarà sempre.

Per ragioni legate alle condizioni chimiche dell'origine della vita e ai vincoli fisici dell'autorganizzazione, i primi esseri viventi comparsi sulla Terra si trovavano nei pressi del limite minimo di complessità concepibile e conservabile. In uno schema che rappresenti la complessità questo limite inferiore può essere raffigurato come un muro. Poiché la documentazione fossile ci induce a supporre che la distanza tra esso e il modo di vita batterico sia molto piccola, vi è una sola direzione possibile per future modificazioni: un aumento della complessità verso destra. Così, di tanto in tanto, si evolve un organismo più complesso che estende l'ambito di diversità della vita nell'unica direzione disponibile. Tecnicamente parlando, la distribuzione della complessità si sposta sempre più verso destra in seguito a queste aggiunte occasionali. Simili aggiunte sono però rare ed episodiche. Non costituiscono neppure una serie evolutiva, ma formano una sequenza eterogenea di taxa aventi scarsa affinità tra loro, generalmente rappresentati da una cellula eucariota, una medusa, un trilobite, un nautiloide, un euripteride (animale di notevoli dimensioni affine agli xifosuri), un pesce, un anfibio come Eryops, un dinosauro, un mammifero e un essere umano. Non è possibile interpretare una sequenza di questo tipo come la principale tendenza o forza propulsiva della storia della vita; si potrebbe immaginare piuttosto che occasionalmente un organismo ruzzoli nella regione di destra, vuota, dello spazio della complessità. 

Per tutto questo tempo, il modo batterico è cresciuto in altezza mantenendo costantemente la stessa posizione. I batteri rappresentano il più grande successo della storia della vita. Essi occupano una maggiore
varietà di ambienti e comprendono una gamma di processi biochimici più vasta di qualsiasi altro gruppo. Sono adattabili, indistruttibili e sorprendentemente diversificati. Non riusciamo neppure a immaginare come l'opera dell'uomo potrebbe minacciare la loro estinzione, mentre ci preoccupa l'impatto che le nostre attività possono avere su quasi ogni altra forma di vita. Il numero di cellule di Escherichia coli che vivono nell'intestino di ciascun essere umano supera il numero di persone vissute sulla Terra dalla comparsa dell'uomo.

Si potrebbe sostenere che - benché il processo che conduce la vita nel suo insieme verso una sempre maggiore complessità rappresenti una pseudotendenza, basata sulla limitazione dovuta alla presenza del muro a sinistra - l'evoluzione all'interno di particolari gruppi favorisca in modo differenziale la complessità nel caso il ceppo fondatore abbia origine in un punto sufficientemente lontano dal muro, così da permettere il movimento in entrambe le direzioni. Le ricerche per verificare questa interessante ipotesi sono appena agli inizi (dato che l'interesse per questo argomento è relativamente recente tra i paleontologi) e quindi non disponiamo ancora di un numero sufficiente di casi per procedere a una generalizzazione. I primi due studi effettuati (quello di Daniel W. McShea dell'Università del Michigan sulle vertebre dei mammiferi e quello di George F. Boyajian dell'Università della Pennsylvania sulle linee suturali delle ammoniti) non hanno rivelato alcuna tendenza evolutiva che favorisca una maggiore complessità. Inoltre, quando si considera che, per ogni modalità di vita che comporti un maggiore grado di complessità, ne esiste probabilmente un'altra ugualmente vantaggiosa, basata su una maggiore semplicità di forma (come si riscontra, per esempio, nei parassiti), sembra improbabile a priori un'evoluzione preferenziale verso la complessità. 

La nostra impressione che la vita si evolva verso una maggiore complessità è probabilmente soltanto un pregiudizio, ispirato da un atteggiamento mentale "provinciale" che tende a concentrare l'attenzione su noi stessi e, di conseguenza, a dare eccessiva importanza agli organismi che diventano più complessi; al contrario, ignoriamo altrettante linee evolutive che si adattano ugualmente bene assumendo forme via via più semplici. Il parassita di morfologia degenerata, che si trova in un ambiente protetto nel corpo dell'ospite, ha altrettante prospettive di successo evolutivo di un suo affine, splendidamente elaborato, che deve tener testa alle fonde e alle frecce di una sorte spietata in un mondo esterno crudele.
 

Anche
se la complessità non fosse altro che un allontanamento da un muro che esercita costrizione, potremmo considerare le tendenze in questa direzione come maggiormente prevedibili e caratteristiche del corso della vita nel suo insieme se, col passare del tempo, gli incrementi nella complessità si accumulassero in maniera persistente e graduale. Ma, per ciò che concerne la storia della vita, nulla è più stupefacente, rispetto a questa comune (e falsa) aspettativa, dell'andamento reale - fatto di lunghi periodi di stabilità e di rapidi cambiamenti episodici - che ci viene rivelato dallo studio dei reperti fossili.

La vita è rimasta quasi esclusivamente unicellulare per i primi cinque sesti della sua storia: dai primi fossili documentati, che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa, ai primi animali pluricellulari altrettanto ben documentati, che risalgono a meno di 600 milioni di anni fa. (Alcune alghe pluricellulari semplici si sono evolute più di un miliardo di anni fa, ma esse appartengono al regno vegetale e non hanno alcun legame di parentela con gli animali.) Questo lungo periodo di vita unicellulare comprende, naturalmente, la transizione di fondamentale importanza dalle cellule procariote semplici, prive di organelli, alle cellule eucariote dotate di nuclei, mitocondri e altre strutture intracellulari, ma per vedere il raggiungimento dell'organizzazione animale pluricellulare bisogna attendere per ben tre miliardi di anni. 

Se la complessità è una caratteristica tanto valida e, secondo il nostro modo usuale di pensare, la pluricellularità ne rappresenta la fase iniziale, la vita deve essersi presa un bel po' di tempo per effettuare questo passo cruciale. Simili indugi fanno pensare che non si possa considerare il progresso in generale come il tema principale della storia della vita, anche se è possibile spiegarli plausibilmente ammettendo che l'ossigeno atmosferico fosse scarso per gran parte del Precambriano o che la vita unicellulare fosse incapace di raggiungere una qualche soglia strutturale che fungesse da presupposto per la pluricellularità.

Fatto ancora più curioso, tutti gli stadi principali nell'organizzazione della struttura pluricellulare degli animali si sono svolti in un breve periodo di tempo, a cominciare da meno di 600 milioni di anni fa fino a concludersi circa 530 milioni di anni fa. Anche le varie fasi all'interno di questa sequenza sono state discontinue ed episodiche, senza un accumulo graduale. La prima fauna, detta di Ediacara in onore della località australiana dove venne scoperta (oggi si sa che essa è presente nelle rocce più antiche di tutti i continenti), consiste in fronde molto appiattite, lamine e dischetti composti da numerosi, sottili segmenti uniti assieme. La natura della fauna di Ediacara è oggi argomento di intense discussioni. Non sembrerebbe che questi organismi siano solamente precursori di forme più tardive. Potrebbero costituire un esperimento separato e fallito nella vita animale, oppure potrebbero rappresentare una gamma completa di organizzazioni diploblastiche (a duplice strato), della quale gli attuali celenterati (coralli, meduse e affini) sarebbero l'unica reliquia, notevolmente alterata.

In ogni caso, la fauna di Ediacara si estinse certamente assai prima che si evolvessero le faune e le fiore del Cambriano. Quest'ultimo periodo ebbe dunque inizio con un insieme di strutture disparate e di difficile interpretazione, definito "piccola fauna a conchiglie". Il successivo impulso importante, a cominciare da circa 530 milioni di anni fa, costituisce la famosa "esplosione" del Cambriano, durante la quale tutti i phyla animali moderni, tranne uno, hanno fatto la loro prima comparsa tra i reperti fossili. (I geologi avevano dapprima collocato questo evento lungo un periodo di 40 milioni di anni, ma un eccellente studio pubblicato nel 1993 restringe inequivocabilmente questo arco di tempo di fioritura filetica a soli cinque milioni di anni.) 

I briozoi, un gruppo di organismi marini sessili e coloniali, non comparvero fino all'inizio del periodo successivo, l'Ordoviciano, ma questo apparente ritardo potrebbe essere un artefatto dovuto al semplice motivo che non sono stati scoperti loro rappresentanti nel Cambriano. Anche se da allora si sono svolti eventi interessanti e spettacolari come la diffusione dei dinosauri e la comparsa dell'intelligenza umana, non è esagerato affermare che la storia successiva della vita animale consiste in poco più che semplici variazioni su temi anatomici già apparsi durante l'esplosione del Cambriano, in un arco di tempo di soli cinque milioni di anni. 

Tre miliardi di anni di unicellularità, seguiti da cinque milioni di anni di intensa creatività, a cui si aggiungono oltre 500 milioni di anni di variazioni su temi anatomici ben stabiliti, possono difficilmente essere interpretati come una tendenza prevedibile, inesorabile o continua verso il progresso o una crescente complessità. Non siamo in grado di spiegare perché l'esplosione del Cambriano abbia potuto dare così rapidamente il via a tutti i più importanti tipi di organizzazione anatomica. Una spiegazione "esterna", su base ecologica, sembra avere un certo interesse: l'esplosione del Cambriano rappresenta il riempimento iniziale del "serbatoio ecologico" di nicchie per gli organismi pluricellulari e qualsiasi esperimento vi ha trovato spazio. Da allora, il serbatoio non si è mai più svuotato; anche le estinzioni in massa hanno lasciato alcune specie per ciascun ruolo importante, e l'occupazione dello spazio ecologico da parte di queste ha precluso l'opportunità di novità fondamentali. Sembrerebbe però necessaria, in funzione di complemento, anche una spiegazione "interna", vale a dire basata sulla genetica e sullo sviluppo: i più antichi animali pluricellulari avevano forse conservato una certa flessibilità per il cambiamento genetico e la trasformazione embriologica, flessibilità che si è fortemente ridotta allorché essi si sono "bloccati" in un insieme di modelli stabili e di successo.

In ogni caso, questo periodo iniziale di flessibilità interna ed esterna diede origine a tutta una gamma di organizzazioni anatomiche degli invertebrati le quali (in appena alcuni milioni di anni) potrebbero aver superato l'intera varietà di forme animali presenti oggi in tutti gli ambienti terrestri (dopo più di 500 milioni di anni di ulteriore espansione). Gli scienziati hanno opinioni alquanto discordi su questo argomento. Alcuni sostengono che, in questa esplosione iniziale, la gamma dei tipi di organizzazione anatomica doveva essere superiore a quella degli organismi attuali, dato che molti dei primi esperimenti si sono estinti col passare del tempo e non è più comparso alcun nuovo phylum. Anche gli scienziati che tendono a opporsi più decisamente a quest'idea ammettono che la biodiversità del Cambriano fosse perlomeno uguale a quella attuale: così, anche per chi la pensa nel modo più prudente, le opportunità emerse nei 500 milioni di anni successivi non provocarono alcuna espansione della varietà di forme del Cambriano, raggiunta nell'arco di soli 5 milioni di anni. L'esplosione del Cambriano fu, dunque, l'avvenimento più straordinario ed enigmatico della storia della vita.

Inoltre non sappiamo perché la maggior parte dei primi esperimenti si siano estinti, mentre alcuni sono sopravvissuti per diventare i phyla che oggi conosciamo. Si sarebbe tentati di dire che i vincitori abbiano prevalso in virtù di una maggiore complessità anatomica, di una migliore idoneità ecologica o di qualche altro aspetto prevedibile della convenzionale lotta darwiniana. Essi però non hanno in comune alcun carattere conosciuto; diventa così indispensabile prendere in considerazione la radicale alternativa secondo cui ogni esperimento primordiale ricevette niente altro che l'equivalente di un biglietto della più grande lotteria mai svoltasi sul nostro pianeta e ogni linea evolutiva sopravvissuta, compreso il nostro phylum di vertebrati, esiste oggi sulla Terra più grazie alla fortuna che ha avuto nell'estrazione che non a un qualsiasi prevedibile esito della lotta per l'esistenza. La storia della vita animale pluricellulare può essere stata più una storia di grande riduzione delle possibilità iniziali, con una stabilizzazione dei fortunati superstiti, che un racconto convenzionale di espansione ecologica costante e di progresso morfologico nella complessità.

Infine, questo andamento di lunghe stasi e di rapidi episodi nei quali si concentra il cambiamento e vengono stabiliti nuovi equilibri può essere generalizzato a molteplici scale di tempo e di grandezza, fino a formare una sorta di configurazione frattale dotata di autosomiglianza. In base al modello della speciazione a equilibri punteggiati, le tendenze all'interno delle diverse linee evolutive si manifestano attraverso episodi, che si vanno continuamente accumulando, di speciazione istantanea alla scala dei tempi geologici, anziché tramite un graduale cambiamento all'interno di popolazioni continue (si tratta di un processo che assomiglia più al salire i gradini di una scala che non al far rotolare una palla all'insù lungo un piano inclinato).

Anche se la teoria evoluzionistica suggerisse una potenziale direzione interna per la storia della vita (i fatti e le argomentazioni precedentemente esposti inducono, tuttavia, ad avanzare qualche dubbio su questa affermazione), l'occasionale verificarsi di un cambiamento rapido e sostanziale, forse addirittura catastrofico, nell'ambiente altererebbe profondamente questo andamento. Cambiamenti ambientali di questa portata possono causare l'estinzione di una percentuale elevata delle specie terrestri e, così facendo, annullare qualsiasi direzione interna e riorientare il corso della storia biologica in maniera tale da farlo apparire capriccioso e concentrato in singoli episodi anziché costante e direzionale. 

Estinzioni in massa vennero individuate già agli albori della paleontologia; le principali suddivisioni della scala del tempo geologico sono state stabilite in corrispondenza di limiti contrassegnati da simili eventi. Ma fino a quando, alla fine degli anni settanta, non si ebbe un risveglio di interesse per questi fenomeni, buona parte dei paleontologi trattò le estinzioni in massa solo come un'intensificazione di eventi ordinari, che portava (al massimo) a un'accelerazione di tendenze già esistenti in tempi normali. Secondo la teoria gradualistica delle estinzioni in massa, questi eventi impiegavano in realtà milioni di anni per svolgersi (e la loro rapidità apparente era interpretata come un artefatto dovuto alla documentazione fossile incompleta); essi non facevano altro che accelerare fenomeni che già si manifestavano in tempi ordinari (per esempio, una più intensa competizione darwiniana in situazioni difficili che portava a una sostituzione estremamente efficiente delle forme meno adattate da parte di forme migliori).

La reinterpretazione delle estinzioni in massa come eventi fondamentali per la storia biologica e radicalmente diversi dalla spiegazione tradizionale ebbe inizio nel 1979, allorché Luis e Walter Alvarez presentarono dati dai quali si poteva dedurre che l'impatto di un corpo extraterrestre di grandi dimensioni (probabilmente un asteroide con diametro compreso fra sette e 10 chilometri) fosse responsabile dell'ultima grande estinzione, avvenuta 65 milioni di anni fa, al limite tra Cretaceo e Terziario. Anche se, in un primo momento, l'ipotesi degli Alvarez trovò un'accoglienza alquanto scettica da parte della comunità scientifica (atteggiamento peraltro del tutto opportuno nei riguardi di spiegazioni così anticonformiste), essa sembra oggi pressoché dimostrata in seguito alla scoperta dell'"arma del delitto", un cratere di dimensioni ed età appropriate localizzato al largo della penisola dello Yucatan, in Messico.

Il risveglio di interesse per le estinzioni in massa ha anche indotto i paleontologi a classificare in modo più rigoroso i dati relativi a esse. Ricerche effettuate da David M. Raup, J. J. Sepkoski, Jr., e David Jablonski dell'Università di Chicago hanno permesso di individuare cinque estinzioni principali (avvenute alla fine dell'Ordoviciano, nel tardo Devoniano, alla fine del Permiano, alla fine del Triassico e alla fine del Cretaceo), oltre a molte estinzioni minori, in tutti i 530 milioni di anni della storia degli animali pluricellulari. Non abbiamo alcuna prova concreta che qualcuno di questi eventi, a parte l'ultimo, sia stato scatenato da un impatto catastrofico, ma lo studio accurato condotto da Raup e collaboratori porta alla conclusione generale che le estinzioni in massa debbano essere state più frequenti, più rapide, più estese per dimensione e più varie nei loro effetti di quanto fosse stato in precedenza supposto. Queste quattro caratteristiche illustrano quanto siano profonde le implicazioni delle estinzioni in massa nel consentirci di interpretare il corso della storia biologica come contingente e capriccioso, anziché come prevedibile e destinato a svolgersi in una ben precisa direzione.

Le estinzioni in massa non sono del tutto casuali nel loro impatto sulla vita. Alcuni gruppi di organismi soccombono e altri sopravvivono come risultato logicamente deducibile della presenza o dell'assenza di determinate caratteristiche evolutive. Ma, specialmente se la causa che innesca l'estinzione è improvvisa e catastrofica, le ragioni che determinano la vita o la morte possono avere ben poco a che fare con l'adeguatezza di caratteri evolutisi nel corso di una competizione darwiniana svoltasi in tempi normali. Il fatto che le estinzioni in massa siano eventi che si fondano su "regole differenti" impartisce al corso della storia biologica un carattere bizzarro e imprevedibile, in quanto un gruppo di organismi non può, in tutta evidenza, anticipare evenienze future ditale portata e con effetti così vari.

Citerò due esempi che risalgono all'estinzione avvenuta 65 milioni di anni fa, al limite tra Cretaceo e Terziario, e dovuta a un impatto meteoritico. In primo luogo, un importante studio pubblicato nel 1986 ha messo in rilievo che le diatomee sopravvissero a quell'estinzione molto meglio degli altri componenti unicellulari del plancton (in primo luogo coccoliti e radiolari). E' stato scoperto che molte di esse avevano sviluppato una strategia di quiescenza per incistamento, forse per sopravvivere alle condizioni sfavorevoli di certe stagioni (per esempio, nelle specie polari, i lunghi mesi di oscurità che diversamente sarebbero stati fatali a cellule dotate di attività fotosintetica; oppure una disponibilità sporadica della silice necessaria per costruire gli scheletri). Altre cellule planctoniche non avevano invece sviluppato alcun meccanismo di quiescenza. Se, al termine del Cretaceo, l'impatto meteoritico produsse davvero una nube di polvere tale da schermare la luce del Sole per parecchi mesi o più, le diatomee potrebbero essere sopravvissute fortuitamente grazie ai loro meccanismi di quiescenza, che pure si erano sviluppati per compiere una funzione totalmente diversa: il superamento di avversità stagionali in tempi ordinari. Le diatomee non erano in qualche modo superiori ai radiolari o ad altri organismi planctonici che furono colpiti in maniera molto più grave dall'estinzione; ebbero semplicemente la fortuna di possedere un carattere vantaggioso, evolutosi per altre ragioni, che consentì loro di superare l'impatto e le sue catastrofiche conseguenze.

In secondo luogo, sappiamo tutti che i dinosauri perirono in un evento verificatosi alla fine del Cretaceo, lasciando ai mammiferi la possibilità di dominare, come oggi avviene, il mondo dei vertebrati. I più danno per scontato che i mammiferi prevalsero in quei tempi difficili grazie a una qualche loro superiorità generale sui dinosauri, ma una simile conclusione sembra assolutamente improbabile. Mammiferi e dinosauri erano coesistiti per 100 milioni di anni, e per tutto questo tempo i mammiferi avevano mantenuto dimensioni paragonabili a quelle di un ratto o anche minori, senza compiere alcuna "mossa" evolutiva per spodestare i dinosauri dalla loro posizione di dominanza. Finora non è stato proposto alcun argomento valido che spieghi la supremazia dei mammiferi come dovuta a una loro superiorità generale; sembra che la causa di gran lunga più probabile sia stata accidentale. Un'argomentazione plausibile potrebbe essere che i mammiferi siano sopravvissuti in parte per effetto della loro piccola mole (la quale implica popolazioni molto più numerose, che oppongono una maggiore resistenza all'estinzione, e una minore specializzazione ecologica che consente, per così dire, di disporre di un numero più elevato di posti per nascondersi). La piccola mole potrebbe, però, non essere stata affatto un adattamento positivo dei mammiferi, ma piuttosto un segno della loro perenne incapacità di competere efficacemente con i dinosauri. Eppure questa caratteristica, "negativa" in tempi normali, potrebbe essere stata la ragione principale della sopravvivenza dei mammiferi, e una condizione necessaria perché io oggi possa scrivere questo articolo e voi siate in grado di leggerlo.

Sigmund Freud faceva spesso notare come le grandi rivoluzioni nella storia della scienza abbiano un'unica caratteristica comune, carica d'ironia: demoliscono tutti quei piedistalli su cui l'umanità si è posta, convinta della propria importanza. Nei tre esempi che Freud riferiva, Copernico spostò la nostra collocazione dal centro dell'universo alla periferia; Darwin ci relegò poi a una "discendenza dal mondo animale"; infine (in una delle affermazioni meno modeste della storia del pensiero), lo stesso Freud scoprì l'inconscio e distrusse il mito di una mente completamente razionale. 

In questo senso saggio e decisivo, la rivoluzione darwiniana rimane dolorosamente incompleta perché, anche se l'umanità razionale accetta l'evoluzione come un fatto, la maggior parte di noi ancora non è disposta ad abbandonare la confortante idea che evoluzione significhi (o perlomeno non possa avvenire senza) progresso, il che rende la comparsa di qualcosa come la coscienza umana pressoché inevitabile, o perlomeno prevedibile. Il piedistallo non verrà infranto fino a quando non abbandoneremo, come principi fondamentali, il progresso e lo sviluppo di una complessità sempre maggiore, e cominceremo a tenere in considerazione la possibilità tutt'altro che remota che Homo sapiens sia solamente un minuscolo ramoscello tardivo di quell'enorme cespuglio arborescente che è la vita: una piccola gemma che, quasi certamente, non riuscirebbe a comparire una seconda volta se si potesse ripiantare il cespuglio partendo dal seme e lasciarlo crescere di nuovo.

Nell'uomo, come in tutti i primati, la visione è importante, e le immagini che realizziamo rivelano le nostre convinzioni più profonde e mettono in luce i nostri attuali limiti concettuali. Gli illustratori hanno sempre rappresentato la storia degli animali fossili come una sequenza che parte dagli invertebrati per giungere agli esseri umani, passando dai pesci ai primi anfibi terrestri, ai rettili, ai dinosauri e ai mammiferi. Non vi sono eccezioni; tutte le sequenze di immagini realizzate a partire dalla nascita di questo genere di rappresentazione, intorno alla metà del secolo scorso, seguono la stessa convenzione. Eppure le assurdità e i preconcetti codificati in questa convenzione generalizzata saltano facilmente all'occhio. Nessuna scena mostra più alcun invertebrato dopo l'evoluzione dei pesci, ma nel frattempo gli invertebrati non sono affatto scomparsi né hanno cessato di evolversi! Nessuna scena mostra mai un pesce dopo la comparsa dei rettili (le illustrazioni riguardanti i mari in epoche successive mostrano solo quei rettili che tornarono alla vita acquatica, come gli ittiosauri e i plesiosauri), ma i pesci non hanno per nulla cessato di evolversi dopo che un piccolo gruppo staccatosi dalla loro linea evolutiva iniziò a colonizzare la terraferma. In effetti, il principale evento nell'evoluzione dei pesci, l'origine e lo sviluppo dei Leleostei, o pesci ossei moderni, che sono oggi predominanti, avvenne all'epoca dei dinosauri e pertanto non viene mai illustrato in alcuna di queste sequenze, anche se i teleostei annoverano più della metà di tutte le specie di vertebrati. Inoltre perché gli esseri umani devono sempre apparire alla fine di tutte queste sequenze? L'ordine dei primati a cui apparteniamo è antico tra i mammiferi, e molte altre linee evolutive che hanno avuto successo sono apparse dopo di noi.

Non manderemo in frantumi il piedistallo di cui parlava Freud nè completeremo la rivoluzione di Darwin fino a quando non troveremo, capiremo e accetteremo un altro modo di rappresentare la storia della vita. J. B. S. Haldane ha proclamato che la natura "è più bizzarra di quanto noi possiamo supporre", ma i nostri limiti di comprensione potrebbero essere blocchi concettuali anziché restrizioni imposte dalla fisiologia del nostro sistema nervoso. Per infrangere questi blocchi serviranno forse nuovi paradigmi, e saranno alberi evolutivi (o meglio lussureggianti cespugli evolutivi copiosamente ramificati), anziché scale e sequenze, a fornirci la chiave per poter compiere questa transizione concettuale.

Dobbiamo imparare a rappresentare l'intera gamma di variazioni e non solo la nostra percezione ristretta del minuscolo gruppo degli organismi più complessi. Dobbiamo riconoscere che forse l'albero della vita aveva il massimo numero di rami subito dopo l'inizio della vita pluricellulare e che la storia successiva è stata in gran parte un processo di eliminazione - nel quale pochi hanno avuto la fortuna di sopravvivere - più che una fioritura continua, un progresso e un'espansione di una moltitudine crescente. Dobbiamo capire che i rami non sono altro che monconi contingenti, e non prevedibili punti di arrivo dell'immenso cespuglio sottostante. Dobbiamo infine ricordarci della più grande tra tutte le affermazioni bibliche sulla saggezza: "E un albero di vita per coloro che cercano in essa un sostegno; e felice è chiunque la conserva".


Tratto da: Gould S.J. L'evoluzione della vita sulla Terra, Le Scienze n.316 [pp.65-72]

 

 
 Webmaster: Roberto Onuspi  Redazione: Scienza & Divulgazione